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poesia saggistica

“Lettera a Lakis Proguidis” di Michel Houellebecq

Nel numero 9 di “L’Atelier du roman”, Lakis Proguidis s’interrogava sui rapporti tra la poesia e il romanzo, riferendosi in particolare ai miei scritti. La presente risposta è uscita nel numero 10 (primavera 1997), ed è stata ripubblicata in Interventions (Flammarion, 1998) e Interventions 2 (Flammarion, 2009).

Mio caro Lakis,

è da quando ci conosciamo che ti sento turbato dallo strano attaccamento (compulsivo? masochista?) che io manifesto a intervalli regolari per la poesia. Tu naturalmente ne indovini gli inconvenienti: inquietudine degli editori, sconcerto della critica; aggiungiamo per completezza che, da quando ho avuto successo come romanziere, i poeti mi danno sui nervi.

Così, a fronte di una mania da me assecondata con una tale ostinazione, ti fai legittimamente delle domande: domande che sono poi confluite in un articolo uscito nel numero 9 di “L’Atelier du roman”. Diciamolo senza mezzi termini: sono rimasto colpito dalla serietà e dalla profondità del tuo articolo. Dopo averlo letto, ho capito che diventava difficile continuare a far finta di niente; che dovevo, a mia volta, cercare di dare una spiegazione in merito alle domande che mi poni.

L’idea di una storia letteraria separata dalla storia umana complessiva mi pare molto poco efficace (e aggiungerò che la democratizzazione del sapere la rende sempre più artificiale). Non sarà dunque né per provocazione né per capriccio che farò appello, nelle pagine che seguono, a settori extraletterari del sapere. Il XX secolo resterà, senza il minimo dubbio, l’età del trionfo, nella mente del grande pubblico, di una spiegazione scientifica del mondo, da esso associata a un’ontologia materialistica e al principio di determinismo ambientale.

Tanto che, per fare un esempio, si va sempre più affermando la scelta di motivare i comportamenti umani in base a un breve compendio di parametri numerici (in sostanza, concentrazioni di ormoni e neurotrasmettitori). Si tratta di materie in cui lo spirito del romanziere finisce per coincidere con quello del grande pubblico. Dunque la costruzione di un personaggio romanzesco, se è onesto, dovrà sembrargli un esercizio un poco formale, per non dire vano; tutto sommato, sarebbe più che sufficiente una scheda tecnica.

Non è bello dirlo, ma la nozione di personaggio romanzesco mi pare invece presupporre l’esistenza, se non di un’anima, quantomeno di una certa profondità psicologica. Come minimo, occorre convenire che la graduale esplorazione di un personaggio è stata a lungo considerata una delle peculiarità del romanziere, e che questa radicale riduzione dei suoi poteri non può non suscitare in lui una qualche titubanza circa la fondatezza delle sue pratiche.

Fatto forse ancora più grave: come mostrano eloquentemente i modelli di Dostoevskij e Thomas Mann, il romanzo è una sede naturale per esprimere dibattiti o conflitti filosofici. Dire che il trionfo dello scientismo restringe pericolosamente lo spazio riservato a tali dibattiti, all’ampiezza dei conflitti, è un eufemismo.

Quando desiderano un chiarimento sulla natura del mondo, i nostri contemporanei non si rivolgono più ai filosofi, o ai pensatori esponenti delle “scienze umane”, che considerano (il più delle volte a buon diritto) dei burattini senza nerbo: s’immergono se mai nella lettura di Stephen Hawking, di Jean-Didier Vincent o di Trinh Xuan Thuan. La moda recente delle discussioni da bar, il massiccio successo dell’astrologia o della chiaroveggenza mi paiono tutt’al più reazioni compensatorie, vagamente schizofreniche, a fronte dell’estensione, considerata ineluttabile, della visione scientifica del mondo.

In tali condizioni, il romanzo, prigioniero di un comportamentismo soffocante, finisce per volgersi verso la sua unica, ultima ancora di salvezza: “la scrittura” (a questo livello, il termine “stile” sta cadendo in disuso: non abbastanza appariscente, mancante di mistero). In sostanza, da un lato ci sarebbe la scienza, il rigore, la conoscenza, il reale. Dall’altro, la letteratura, la sua gratuità, la sua eleganza, i suoi giochi formali; la produzione di “testi”, piccoli oggetti ludici commentabili con l’apposizione di prefissi (para, meta, inter). Il contenuto di questi testi? Non è né sano né lecito parlarne, anzi, è persino imprudente.

Lo spettacolo ha un suo risvolto triste. Non sono mai riuscito, da parte mia, ad assistere, senza che mi si stringesse il cuore, all’ampio sfoggio di tecniche adoperate da questo o quel “formalista-Minuit” per poi ottenere un risultato finale così esiguo. Per tenere botta, mi sono spesso ripetuto questo aforisma di Schopenhauer: “La prima – e praticamente l’unica – condizione di un bello stile è avere qualcosa da dire.” Pronunciata con il tono brusco tipico del suo autore, è una frase che può aiutare. Per esempio, nel corso di una conversazione letteraria, quando viene pronunciata la parola “scrittura”, tutti sappiamo che è venuto il momento di rilassarsi un po’. Di guardarsi attorno, di ordinare un’altra birra.

Quale rapporto con la poesia? In apparenza nessuno. Anzi, sulle prime, la poesia sembra ancor più gravemente inficiata dalla stupida idea che la letteratura sia un lavoro sulla lingua avente come oggetto la produzione di una scrittura. Circostanza aggravante, essa è particolarmente sensibile alle condizioni formali del suo esercizio (per esempio, Georges Perec è riuscito a diventare un grande scrittore malgrado l’Oulipo; non conosco nessun poeta che abbia resistito al lettrismo). Va tuttavia notato che la cancellazione del personaggio non la interessa in alcun modo; che il dibattito filosofico non è mai stato la sua sede naturale – non più, comunque, di qualsiasi altro dibattito. Essa mantiene dunque intatta una gran parte dei suoi poteri – a condizione, beninteso, che accetti di servirsene.

Trovo interessante che, parlando di me, fai cenno a Christian Bobin, non fosse altro che per sottolineare ciò che mi separa da quell’amabile idolatra (a irritarmi, in lui, non è tanto la sua meraviglia davanti agli “umili oggetti del mondo creato da Dio”, quanto l’idea che dà, costantemente, di meravigliarsi della sua stessa meraviglia). Avresti anche potuto, scendendo di qualche gradino nel girone dell’orrore, ricordare l’improbabile Coelho.

Non ho certo intenzione di eludere il confronto con gli spiacevoli corollari della mia scelta: cioè risvegliare le potenze addormentate dell’espressione poetica. Se la poesia, quando prova a parlare al mondo, si vede facilmente accusata di tendenze metafisiche o mistiche, lo fa per una semplice ragione: tra il riduzionismo meccanicistico e le stupidaggini new age non esiste più niente. Niente. Un niente intellettuale spaventoso, un deserto totale.

Il XX secolo resterà – anche – l’epoca paradossale in cui i fisici hanno rifiutato il materialismo, rinunciato al determinismo ambientale, abbandonato completamente, insomma, quell’ontologia di oggetti e proprietà che presso il grande pubblico si è affermata come elemento costitutivo di una visione scientifica. Nel numero 9 (davvero ottimo) di “L’Atelier du roman” si ricorda la carismatica figura di Michel Lacroix.

Ho letto e riletto con attenzione la sua ultima opera, L’Idéologie du New Age. La mia conclusione è netta: non esiste alcuna possibilità di uscire vittoriosi dalla sfida da lui lanciata. Facendo leva sulle insostenibili sofferenze generate dal distanziamento sociale, solidale fin da principio con i nuovi media, proponendo efficaci tecnologie del benessere, il new age – Lacroix ha ragione di dirlo – è infinitamente più influente di quanto si pensi. Il pensiero new age – e Lacroix ha ragione anche su questo punto – è molto più di un remix di vecchie ciarlatanerie: in primo luogo, infatti, ha saputo approfittare delle recenti mutazioni intervenute nel pensiero scientifico (studio dei sistemi globali come insiemi irriducibili alla somma dei loro elementi; dimostrazione della non separabilità quantica).

Anziché muovere i suoi attacchi su questo terreno (dove il pensiero new age è sostanzialmente fragile; poiché, dopotutto, tutte le mutazioni intervenute si adatterebbero sia a un positivismo integrale sia a un’ontologia alla Bohm), Lacroix si limita a esprimere proteste accorate e difformi, testimonianze di un’ingenua fedeltà ai pensieri dell’alterità, all’eredità della civiltà greca o giudaico-cristiana. Non è certo con argomenti di tale natura che avrà la possibilità di resistere al bulldozer olistico.

Detto questo, io stesso non avrei saputo fare meglio. Ed è il fatto di doverlo ammettere che mi dà fastidio: intellettualmente, mi sento incapace di andare oltre. Anche se ho il presentimento che la poesia abbia ancora un ruolo da svolgere: forse come una sorta di precursore chimico. Non solo la poesia precede il romanzo; essa precede pure, e in maniera più diretta, la filosofia.

Se Platone lascia i poeti fuori delle porte della sua famosa città, è perché non ha più bisogno di loro (e perché, divenuti inutili, finiranno per diventare pericolosi). In fondo, se scrivo poesie, è forse innanzitutto per porre l’accento su una mostruosa e totale mancanza (che si può intendere come affettiva, sociale, religiosa, metafisica; e ciascuno di questi approcci sarà ugualmente valido).

È forse anche che la poesia è l’unica maniera di esprimere tale mancanza allo stato puro, allo stato nativo; di esprimere simultaneamente ciascuno dei suoi aspetti complementari. È forse per lasciare il seguente minimo messaggio: “Qualcuno, a metà degli anni 199…, ha avvertito con intensità l’affiorare di una mostruosa e totale mancanza; nell’incapacità di dar chiaramente conto del fenomeno, ci ha tuttavia lasciato, a testimonianza della sua incompetenza, alcune poesie.”

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Di yoklux

conservare la poesia, farne di nuova

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