Lei tarda, e io mi becco sta fanfara –
nell’ostile botanica inurbata
allegre famigliole e cigni estivi
prendono il vento senza alcuno stile.
E scopro papere dietro le reti,
parco porco! e ombrellini colorati
mi smarrisco tra linee, forme, vuoti,
i pochi pieni, gli errori e la grazia.
Sono un signore vestito di bianco,
muto ed obliquo, avanzo tra magnolie
tirate a lucido, tra ombra ed incanto
e foghe che cominciano a cadere.
***
Le mie due sveglie vegliano (io dormo
negli abissi) su oscure triglie oniriche
tritando sogni in sincronia fantastica.
La suoneria delle due streghe è icastica.
Preferisco però quella quadrata,
dentro cui il tempo s’inceppa, s’impiglia
ai quattro angoli, e rallenta, indugia,
dolcemente confuso. L’altra, invece,
rotonda, lo fa vorticare veloce,
lo fa circolare,
se lo tira via cerchiosa concentrica,
tra enormi suoni di molle. Che odiosa.
***
strana gente di genere politico
ci offriva di giostrare nella banda:
trovavano che il mondo stesse andando
a zonzo e ci chiedevano di esserci
(forse dissero «a rotoli» o «rotando»
o anche «trottola» o «rivoluzione»)
prendendo posizione ci schierammo
per la veranda, militanti a dondolo,
seguaci delle cose
che muoiono col tempo,
la farfalla incrostata in un barbaglio,
l’ombra sospesa in un cono di attese
siamo lastre incrinate, una vetrata
infranta, e l’armatura rugginosa
che non sente il fulgore dell’estate
e non risponde – un androgino spunta
da un androne, un ephera spinta
verso il nulla da un rush di percezioni